venerdì 18 gennaio 2013

Allenare all’estero parte seconda: la gestione del gruppo


La prima volta che ho conosciuto i bambini della mia squadra confesso di aver avuto un filo di preoccupazione, non tanto dal punto di vista calcistico e metodologico (avevo appena osservato il loro allenamento e sapevo comunque di dover modificare tanto già da subito) ma da quello della gestione del gruppo e dei rapporti che si sarebbero creati tra me e loro.

Per me rappresentava una novità lavorare con bambini non italiani, ma al tempo stesso, anche per i bambini rappresentava una novità avere un allenatore straniero.
I rapporti fin da subito sono stati ottimi, forse per merito mio, sicuramente per merito loro.
I ragazzi hanno mostrato da subito curiosità e rispetto tempestandomi di domande su di me e sul mio modo di allenarli e gestirli, cercando immediatamente di accattivarsi le mie simpatie.
Ho trovato però due problemi, uno che potevo facilmente intuire già da prima di iniziare (vivendo ormai da discreto tempo in questa città) e uno che invece ho conosciuto col tempo. 

Il primo problema facilmente intuibile è che sebbene i bambini siano tutti londinesi di nascita questi sono di razze e culture diversissime tra loro (inglesi bianchi, inglesi neri, arabi, cinesi ed alcuni est europei) e pertanto con tutti loro col tempo ho capito quale fosse la strategia comunicativa più giusta da usare; ad esempio in merito ad un errore del singolo se devo correggere un bambino cinese generalmente lo prendo da parte e ci parlo con tono pacato perché so ormai che questa è la strategia giusta vista la timidezza e la difficoltà a parlare ed esporsi davanti al gruppo, qualora invece la stessa indicazione devo darla ai ragazzi di colore (più esuberanti ed estroversi) uso un tono di voce alta, un linguaggio più forte e cerco di coinvolgere tutto il gruppo in modo tale da far fare un piccolo bagno di umiltà ai ragazzi in questione, ovviamente questo è un esempio generale poi in base alle situazioni e agli umori del gruppo cerco di usare la strategia migliore in quel determinato momento.

Il secondo problema è al tempo stesso una bella sfida, spesso impegnati in risse di quartiere e altri episodi che non sto qui a raccontare, non definirei propriamente i miei ragazzi dei santi. Per chi non conoscesse Londra l’età che attraversano i miei allievi (12-13 anni) qui è considerata la più difficile in termini di microcriminalità; questi ragazzi però sebbene protagonisti fuori dal campo in maniera negativa e sebbene mi siano stati segnalati dalla società come dei piccoli Balotelli da tenere a freno sono anche quelli che mi stanno dando più soddisfazioni e a cui onestamente sono più legato. E' sorprendente come si fidino ciecamente di quello che dico, di come mi ascoltino, della grande voglia di imparare e dell’aiuto che mi danno per tenere il gruppo coeso.

Per i ragazzi tutto è stata una novità: metodi di allenamento, metodi di comunicazione, gestione di svariate situazioni che si vengono a creare in una squadra di calcio  e sono contento che il mio atteggiamento sia tuttora apprezzato da parte loro, dei dirigenti e dei genitori.
Prima di iniziare non mi sono imposto nessun tipo di comportamento, non ho scopiazzato da precedenti allenatori o mie conoscenze ma mi son semplicemente ripromesso di essere me stesso e affrontare il gruppo come sentivo al momento, perciò capita spesso di riprendere un ragazzo o “punirlo” per un determinato comportamento ma magari 5 minuti dopo capita che rido e scherzo con lo stesso ragazzo per un suo scivolone o lo prendo in giro per un clamoroso errore sotto porta.

Per finire, mi piace ridere e scherzare con loro, ascoltare le loro opinioni e perché no suggerimenti, quando lavorano bene anche accontentarli e venirli incontro ma la regola che è stata chiara dal primo giorno e su cui non si scherza è che l’ultima parola è sempre la mia…

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